di Kishore Bombaci
Venerdì approderà in Consiglio dei Ministri il DDL sulla riforma costituzionale che, qualora passasse, introdurrà il premierato nella nostra Carta costituzionale, modificando radicalmente gli art. 88, 92 e 94 Cost.
Si ricorda che per l’approvazione, serve la maggioranza dei 2/3 del Parlamento in doppia lettura. Quindi, il medesimo testo deve superare due volte il vaglio della Camera e due volte il vaglio del Senato con la predetta maggioranza. In caso contrario, l’art. 138 Cost. Prevede un referendum popolare che attribuisce ai cittadini il potere di approvare o meno la Riforma. Per capire che cosa è il premierato, occorre fare un passo indietro e iniziare dallo stato delle cose così come esso è disegnato attualmente.
La nostra è una Repubblica Democratica con forma di governo parlamentare. Ciò significa che il focus del nostro sistema istituzionale è concentrato sulle camere (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica). Infatti, quando vengono indette le elezioni, il corpo elettorale esprime la sua preferenza per la formazione del Parlamento e mai per il Governo. Quest’ultimo, infatti, si forma, sulla base della maggioranza parlamentare uscita dalle urne, in un momento successivo. Ossia, quando il Presidente della Repubblica individua una figura che gode del consenso della suddetta maggioranza parlamentare disposta ad appoggiare il programma di governo e a concentrare l’appoggio in favore del “nominato Presidente. Quando ciò accade, il Presidente della Repubblica incarica il prescelto di formare il Governo. Su sua indicazione ne nomina i ministri e si dà vita alla compagine dell’Esecutivo. A questo punto il Governo, chiede e di solito ottiene, la fiducia delle Camere e solo in quel momento, può iniziare la propria azione. Perciò, fino ad ora, almeno per Costituzione formale, non esiste in alcun modo la possibilità di un Governo che sia espressione diretta dei cittadini, che ripetesi, votano per il Parlamento.
Da decenni, ormai, questo schema formale è stato modificato radicalmente. Con l’introduzione di un sistema di fatto bipolare (prima) e tripolare (adesso), quando il corpo elettorale va alle urne già sa che una determinata coalizione sostiene un determinato “candidato premier”. Il potere del Presidente della Repubblica di affidare l’incarico di formare il Governo ne esce fortemente ridimensionato essendo, sostanzialmente vincolato, al nome “sponsorizzato dalla coalizione”. Naturalmente, tale potere si riespande in caso di crisi di governo.
Sebbene non si possa negare il suddetto cambiamento che avvicina senza dubbio il Presidente del Consiglio al comune sentire della maggioranza degli elettori, tuttavia, va ricordato che le prerogative di quest’ultima restano invariate.. Egli è sostanzialmente un “primun inter pares” rispetto agli altri ministri, ed è privo di poteri effettivamente decisivi nell’indirizzo di governo. Ciò, nonostante la L. 488/88 che aveva tentato di rimodularne poteri, competenze e facoltà. Così come inalterato rimane il rapporto di fiducia con il Parlamento, venuto meno il quale, il Governo cade inesorabilmente.
La storia italiana sia durante la Prima che durante la Seconda Repubblica è piena di tali situazioni, tanto che molto difficilmente negli 80 anni di storia repubblicana, un Governo è durato per tutto il quinquennio di legislatura. Il mutare tuttavia dei tempi, e la necessaria velocità con cui le decisioni debbono essere prese, ha progressivamente richiesto un Governo più pronto e rapido nell’approntare risposte che non potevano attendere la lunga ritualità laica del processo legislativo parlamentare. Questo ha portato come conseguenza una serie di abusi (ad es. la decretazione d’urgenza) che hanno spostato di fatto il focus democratico dal Parlamento al Governo, ma non ne è seguita alcuna modifica formale della Costituzione.
A bloccare l’evoluzione in senso presidenziale, o semipresidenziale (cioè, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica) della nostra democrazia, pesava la storia d’Italia e l’esperienza fascista. In altre parole, i padri costituenti prima, e chi dopo li ha seguiti, ha sempre manifestato una certa ritrosia verso un legame diretto tra corpo elettorale e capo del governo (cosa diversa in Francia, in Gran Bretagna, persino in Spagna, per non parlare degli USA ecc.) per timore di derive plebiscitarie.
Ma da tempo, sia da sinistra che da destra, si è compreso che i retaggi del passato vanno superati in nome di una democrazia moderna e ormai matura, in grado di formalizzare i necessari contrappesi che impedirebbero in ogni caso una torsione autoritaria dello Stato anche in caso di Presidenzialismo, Semipresidenzialismo, Premierato ecc.).
Il governo di centrodestra attuale, nel programma di governo, infatti, aveva dichiarato che avrebbe, in caso di vittoria, lavorato per una riforma dello Stato in senso presidenziale. Quindi: elezione diretta del Capo dello Stato da parte dei cittadini per cinque anni, il quale avrebbe avuto la responsabilità di tracciare la linea di governo, nominare e revocare i ministri ecc. Un sistema all’americana per intendersi a spanne. O, in modo più graduato, alla francese (che è Repubblica semipresidenziale).
Naturalmente una scelta così radicale ha incontrato l’opposizione di quanti – anche importanti studiosi – hanno visto nella realizzazione di tale disegno una (involontaria) delegittimazione del Presidente Mattarella, che in caso di riforma presidenziale, dovrebbe decadere per lasciar spazio a nuove elezioni. Il punto di caduta è stato, dunque, individuato nel cosiddetto premierato. Modello che si ispira alla forma di governo britannica, ma che, nel testo che dovrebbe approdare in CdM, se ne distanzia non poco.
Primo carattere distintivo del premierato all’italiana, così come in tutti i modelli, è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Qualora la riforma passasse, dunque, i cittadini andrebbero a votare direttamente il Premier nominativamente indicato sulla scheda elettorale, a cui saranno collegati i partiti che lo sostengono. L’elezione del Premier dunque sarebbe contemporanea a quella per il rinnovo del Parlamento. La durata del mandato del Premier sarà cinque anni – esattamente come la legislatura – e non si trancia il legame di fiducia con il Parlamento che dovrà comunque esprimersi in favore del programma elettorale della coalizione vincente che esprime il premier. Questi avrà mano libera sostanzialmente nella scelta dei ministri (ed eventualmente sulla revoca?) , anche se formalmente la nomina ricadrà sul Presidente della Repubblica.
Altra norma caratteristica è quella per cui, in caso di sfiducia o dimissioni del Premier e quindi del Governo, l’incarico di formare un nuovo governo potrà essere dato solo a un esponente della coalizione vincente alle elezioni. Con questo accorgimento, il Governo intende ridurre al massimo la possibilità di governi non espressione della maggioranza parlamentare uscita dalle urne. E cioè, di governi sostenuti da partiti sconfitti alle elezioni che, per particolari meccanismi del nostro sistema istituzionale, potrebbero appunto trovarsi a dirigere la politica del paese. O, ancora, tecnici, cioè presieduti da “non politici” incaricati in forza dell’alta competenza specifica (spesso in materia economica, vedi Monti o Draghi) senza però una netta caratterizzazione politica.
Inoltre, sempre nelle intenzioni del Governo, tale modifica consentirebbe di avere una stabilità di indirizzo politico di maggioranza, anche in caso di crisi di governo, visto che il background parlamentare del nuovo governo ricadrebbe sempre nel perimetro di quelle forze che sostengono l’originario programma. Insomma un norma per la stabilità e contro i ribaltoni. Infine, modifica di cui alla riforma, è l’eliminazione dei Senatori a vita di nomina quirinalizia. La carica infatti spetterà di diritto solo agli ex Presidenti della Repubblica mentre gli attuali, decadranno al termine della della legislatura.
Su questa base, è parere di chi scrive che si possa trovare l’accordo in Parlamento con Italia Viva che per bocca del leader Renzi ha già fatto sapere “di essere della partita”. Netta invece è la posizione contraria delle altre opposizioni, in nome di presunti pericoli antidemocratici che francamente, però, a parere di questo scrivente, non si ravvedono.
(31 ottobre 2023)
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